Il Tirreno – Quando Modigliani attraverso il corallo metteva nei dipinti un po’ di Livorno


ROBERTO RIU

Nel famoso dipinto “La donna con la collana rossa” Modigliani ritrae nel 1918 Madeleine Verdou che indossa dei monili di corallo: un motivo ricorrente in diverse altre sue opere e non casuale considerata l’origine ebraica-livornese di Modì laddove Livorno è stata a lungo uno dei più importanti centri per la lavorazione del corallo con molti opifici appartenenti a famiglie ebraiche.È da questi presupposti che nasce la mostra “Il corallo all’epoca di Modigliani” che sarà inaugurata domani alle 17,30 nella chiesa del Luogo Pio a corredo del Museo della Città e resterà visitabile sino al 16 febbraio (dal martedì alla domenica con orario 15-19; lunedì chiuso. Ingresso libero). Curata da Ottavio Lazzara in collaborazione con Maria Teresa Talarico, la mostra è stata promossa dalla Fondazione Livorno, dal Comune e dal Rotary Club Livorno col patrocinio della Regione e dell’Osservatorio dei mestieri d’arte. Organizzato da Fondazione Livorno Arte e Cultura, l’evento ha l’apporto della Diocesi, della “Camera di commercio della Maremma e del Tirreno”, dell’associazione La Livornina e di Marco Mancini (associazione “Livorno come era”) autore di un rendering con la dislocazione dei vari laboratori di lavorazione del corallo. «Se troviamo il rosso nei dipinti di Modigliani – commenta l’assessore Simone Lenzi – quel colore viene da qui, viene dal nostro corallo».Modigliani insomma porta con sé a Parigi non solo la sua formazione, che è quella di un giovane ebreo sefardita livornese proveniente da una famiglia colta da cui proviene anche il suo fratello maggiore, Giuseppe Emanuele, brillante avvocato e politico socialista, oltre che fervente antifascista, ma anche colori e ricordi caratteristici di Livorno e li ritroviamo in tante sue opere: «Questa mostra sul corallo – prosegue Lenzi – costituisce per questo un ulteriore tassello nel mosaico che ricostruisce la formazione giovanile livornese di Modigliani». Un’iniziativa che, come hanno sottolineato anche Luciano Barsotti, Riccardo Vitti, Olimpia Vaccari e Mariateresa Talarico, costituisce un importante evento a corollario della mostra su Modigliani in corso ai Bottini dell’Olio.

Nel percorso espositivo si potranno osservare monili di particolare pregio, antiche immagini della pesca del corallo e dell’attività delle corallaie nell’opificio di Villa Maria, avviato nel 1888 dalla famiglia Lazzara e che, ultimo laboratorio del genere a Livorno, chiuse i battenti nel 1959. Con esso cessò una tradizione artigianale esistente nella nostra città da più di tre secoli quando con l’emanazione delle Leggi Livornine alla fine del ‘500 si stabilirono qui molti mercanti di origine sefardita (Aghib, Ergas Silveira, etc.) che promossero la lavorazione del corallo, eseguita da centinaia di lavoranti, nella quasi totalità manodopera femminile, con creazioni esportate in tutto il mondo (tipica livornese è la lavorazione a “botticelle sfaccettate”). «La mia famiglia – racconta Ottavio Lazzara – è stata, ad esempio, la prima promotrice di forti scambi commerciali con il Giappone ed in mostra potremo vedere dei netsukè ovvero piccoli monili in corallo per ornare il kimono, foto d’epoca e gioielli a taglio liscio e del tipo faccettato livornese, conosciuto in tutto il mondo e realizzato impiegando una grande mola, pesante oltre cento chili, azionata a mano».

 

la storia del “corallium rubrum”

Dai fondali di Calafuria
alla vendita in tutto il mondo

LIVORNO. I livornesi più giovani probabilmente non lo sanno ma sui fondali di Calafuria cresce uno dei coralli più belli e preziosi del Mediterraneo, il leggendario corallium rubrum, che fin dall’epoca dei Medici aveva fatto di Livorno una delle capitali europee della sua lavorazione e commercializzazione, e che negli ultimi decenni è diventato attrazione per migliaia di ammiratori subacquei provenienti da tutta Italia, affascinati da quel colore quasi unico per il nostro mare e dalla sua capacità di proliferare a profondità incredibili, quindici metri anziché trenta-quaranta come in qualsiasi altra parte della penisola.Il corallo è ancora lì, e lo sanno bene coloro che si immergono per ammirarlo ma anche coloro – negli anni scorsi ne abbiamo parlato spesso su queste pagine – che hanno tentato di depredarlo. Non c’è più invece la storica lavorazione del corallo, un’arte andata completamente perduta, ma che aveva fatto grande la città. Una fabbrica – che nel ‘700 venne visitata anche dal Granduca – era in via dei Riseccoli (oggi via Galilei) e altre erano sparse nel cuore antico di Livorno. Dove l’arte venne importata – è la tesi prevalente, anche se qualcuno avanza l’ipotesi che l’avessero portata alcuni genovesi – dai corallari ebrei espulsi dalla Spagna agli inizi del 1600 che qui poterono trovare facilitazioni fiscali previste dalle leggi medicee del ‘500 e poi dalle “livornine” offerte a coloro che volevano avviare nuove attività. Alla fine del ‘600 i laboratori erano una ventina, tutti gestiti da ebrei. Davano lavoro a centinaia di persone, comprese le orfane della Casa Pia. Perché la lavorazione era in prevalenza fatta da mani femminili, veloci e abili nell’intagliare la materia per scolpire le olivette per le collane e le gocce per gli orecchini . Attias, Chayes, di Franco erano i nomi di alcuni dei laboratori più importanti appartenenti a famiglie ebree.Nel ‘700 la piazza livornese toccò l’apice dei guadagni, c’era chi poteva guadagnare anche 100mila zecchini in un solo anno. Poi il settore cominciò ad attraversare crisi sempre più pesanti anche se nella metà dell’Ottocento la famiglia Lazzara fondò un nuovo laboratorio che ebbe in alcuni periodi fino a un migliaio di dipendenti. Chiuse nel 1957, e con esso scomparve definitivamente quell’attività di raffinato intaglio che si ritrova anche in un anello scolpito per i Medici e oggi conservato al Museo degli Argenti di Firenze. —